La Neviera del Sirente, la Val Lupara e l'aerea vetta!

E finalmente il Sirente ha fatto pace con me.


Escursione estemporanea, una ruota di scorta per così dire, una ruota di scorta di lusso ma pur sempre un ripiego. Questo weekend volevamo inoltrarci, per la valle Majellama, nel cuore del Velino, fin sul Bicchero e chissà, forse sulle cime Trento e Trieste, ma Augusto ha inseminato il dubbio che Giovanni, l’amico del GEM di Magliano dei Marsi , ha poi confermato. La valle Majellama è interdetta fino al 15 di Agosto. L’aquila nidifica, prima, e poi cresce i suoi pennuti sulle scoscese rupi del Magnola, per cui è vietato all’umano bipede andare a rompere le scatole ai pennuti. Encomiabile iniziativa, lodevole senz’altro nell’ottica di sensibilizzare il pubblico al rispetto della natura, ma qualcosa non mi convince, un dubbio mi fa rodere; è il non sapere come abbia fatto lei, sempre l’aquila, a nidificare imperterrita anche durante il periodo dell’ultima guerra e come possa risultare oggi disturbata dall’intercedere per quella valle di appassionati camminatori votati alla fatica e per questo certamente rispettosi non solo dell’aquila sovrana ma anche del pennuto più umile. La gente del posto, i montanari del posto, raccontano che l’imbocco della valle Majellama fosse, durante la guerra, usata dai tedeschi come poligono di tiro per i loro carri armati. Insomma, la Majellama veniva presa letteralmente a cannonate e con lei l’aquila, di certo la progenitrice di quella coppia che vive su quelle rupi ma che mai comunque ha deciso lasciato quei luoghi. Racconti popolari? Successive esagerazioni degli antichi accadimenti? Disegni politici attuali a salvaguardia del potere di chi altrimenti per inutilità conclamata sarebbe costretto a trovarsi una attività più faticosa e meno remunerativa? Conta poco capire, meno perdersi in polemiche e riflessioni, fatto sta che di Majellama non si parlerà fino al solleone di metà estate. L’alternativa, si fa naturalmente per prendersi in giro nel definirla alternativa , è far conoscere a Marina uno dei posti che mi affascinano di più dell’intero Appennino: la Neviera del monte Sirente. Un po’ più di tempo da passare in auto ma di certo uno spettacolo non minore rispetto alla profonda valle Majellama. Uscita dalla A25 di Magliano dei Marsi, Forme, e fin qui tutto in comune con il primo progetto, e poi toccando S.Iona raggiungiamo Ovindoli; continuando verso il piano delle Rocche non arriviamo a Rovere, poche centinaia di metri prima sulla destra ad un incrocio prendiamo la strada per Secinaro, quella meravigliosa strada che costeggia i Piani del Sirente e le dolomitiche pareti di questa montagna. Una decina di chilometri e parcheggiamo a Capo d’Acqua. Dalle rovine dello chalet bruciato è risorto uno chalet nuovo e moderno, peccato che abbia ancora le piume nere del brutto anatroccolo; sbarrato, chiuso, li a consumarsi ancora prima dell’inaugurazione; grande attenzione e rispetto per l’aquila della valle Majellama, ne basterebbe la metà verso l’interesse del turismo povero dei montanari per far risorgere l’economia dell’Abruzzo, e per giunta le due incongruenze accadono all’interno dello stesso parco. Maledetti italiani malcostumi e maledette italianissime colpevoli distrazioni. Il sentiero n°15 nasce a fianco dello chalet, sale per poche centinaia di metri all’interno del bosco, ne bastano di meno per dimenticare auto, strada e ogni segno dell’uomo. Al primo incrocio del sentiero, poche centinaia di metri dopo l’inizio, una selva di cartelli indicano svariate ippovie, dei segnavia sulla roccia invece, indicano, svoltando a sinistra, il sentiero n°15 per la vetta del Sirente, lo stesso che sfiora la Neviera. Per un paio di chilometri occorre fare attenzione a non sbagliare sentiero; il sentiero 15, quello principale è ben segnalato e di recente restaurato, ma molti sono gli incroci che si incontrano nei primi due chilometri e non sarebbe male prestare molta attenzione. Quando il pendio si fa più ripido si è fuori dalla zona a rischio di errore, il sentiero diventa evidente, battuto e sempre ben segnalato. Il bosco in questa stagione è molto luminoso, le foglie nuove sono di un verde sfavillante e lasciano filtrare il sole. Ora per lunghi tratti diritti, ora per zig zag che guadagnano agevolmente il dislivello, il sentiero prima sale quasi diritto verso la val Lupara, poi con un lungo traverso costeggia obliquamente, sempre rimanendo all’interno del bosco, le coste rocciose che si iniziano ad intravedere tra i rami del tetto del bosco. Fino a quota 1700 circa, quando, in poche svolte, favorevoli alcuni slarghi del bosco che si dirada lentamente, compare il costone della Neviera. Per me è uno dei luoghi più suggestivi dell’intero Appennino, tutte le volte ne rimango stregato ed anche questa volta al suo cospetto ho voluto fermarmi per un momento di riposo e di contemplazione. La neve dentro i canali è ancora compatta, di più di quella che mi aspettavo; ero partito da casa con l’idea di salire dalla val Lupara e dopo un tratto di cresta scendere per il canalone della Neviera accanto a quel torrione isolato che la contraddistingue, ma qualche dubbio sull’attuazione del progetto mi è venuto subito. Riprendiamo il sentiero finalmente pianeggiante (dura poco però) che costeggia i muraglioni che ora ci sovrastano letteralmente, entra per un breve tratto di nuovo nel bosco e riprende a salire verso la prima delle tre dorsali affilate che scendono dal monte e che delimitano i vari valloni che compongono l’immensa Val Lupara. Dopo la prima crestina il sentiero ritorna pianeggiante ma troviamo la prima comba di neve che persiste ancora salvata dalla scarsa illuminazione solare di questo versante; sarà il primo di tanti traversi che dovremo subire per superare la Val Lupara. Dopo la seconda cresta che scende verticale dall’alto si entra ne cuore della valle, i muraglioni che scendono a valle come lame ci appaiono verticali di fronte, dall’altra parte scende il canale Majori, e già si intravede la cresta in alto dove usciremo. All’interno della valle i raggi del sole non entrano o entrano per poche ore la mattina quando il sole è ancora radente e debole; il limite della neve si abbassa ulteriormente ed i traversi si fanno più lunghi e gli attraversamenti più ripidi. Per fortuna non c’è ghiaccio, non avevo minimamente pensato di portare i ramponi, fare la traccia è faticoso ma si riesce a procedere sicuri anche se lenti. Spuntano cornicioni di neve ovunque in alto, assistiamo anche al crollo di uno di questi che si polverizza con un rumore sordo e l’unico punto privo che ci permetterà di uscire e sulla destra della valle; il sentiero è invisibile perché coperto dalla neve ma non tutta la valle ne è piena; piuttosto che “ravanare” nel ghiaione, facciamo un passo in avanti e mezzo indietro franando a valle con la ghiaia, preferiamo salire in verticale fin tanto che è possibile scalettando sulla neve, fin sotto le rocce. Poi traversiamo su strati erbosi e rocciosi fino a riprendere per pochi tratti il sentiero. E’ faticoso, la scusa di fotografare questo ambiente selvaggio è buona per frequenti soste. A parte l’esigenza di fermarsi per riprendere fiato, guardarsi intorno è affascinante; questi valloni così duri e spogli, incassati tra possenti costoni verticali hanno una bellezza primordiale. Anche la verticalità con cui si incuneano, si inabissano a formare un imbuto verso valle ipnotizza i sensi e lo sguardo. Il contrasto degli ambienti, la cromia e le forme impressionano, coinvolgono ed emozionano, quasi destabilizzano e confondono; le linee convogliano lo sguardo verso la valle, il grigio della roccia e del ghiaione, il biancore della neve a chiazze, la valle che si stringe accentuando le convergenze e poi il bosco ancora spoglio alle quote alte, un misto di grigio e marrone, ed il verde intenso di quello alle quote più basse. Un saggio amico sostiene che non serva utilizzare aggettivi superlativi per descrivere le nostre montagne, anche perché non fosse mai che un giorno ci si trovi sul Karakorum non si saprebbe più quale forma di aggettivi usare, non ne avremmo di scorta e sufficienti per quell’evenienza, ha ragione; ma ciò che mi circondava era tutto bello, tutto unico ed insolito, tutto aspro, duro, ipnotico. Ero attratto e affascinato! Comunque, riprendendo fiato, usciamo in cresta; non distante da cornicioni che giocano a restare in bilico sfidando la temperatura alta della fine mattinata. Il versante Ovest del Sirente che degrada lentamente a valle è completamente privo di neve, esposto come è al sole a picco, mentre i campi della piana di Avezzano sembrano formare un enorme pachwork con le loro cromie multicolori e squadrate. E’ a questo punto che Marina mi chiede di cambiare obiettivo, vuole risalire alla vetta del Sirente. Come dirgli di no in una giornata così bella, la vista dell’abisso sottostante e del panorama tutto intorno sarà di certo bellissima. Salendo poi dentro la Val Lupara, osservando quei cornicioni sporgenti, l’idea di ritrovarli anche all’attacco della discesa sul canale della Neviera mi stava consolidando i dubbi di cui sopra. La Neviera è tanto bella anche da sotto, sono riuscito a farla vedere a Marina in una giornata splendida, la vetta del Sirente non è mai una alternativa, il canalone della Neviera può ancora attendere quindi. Nemmeno 30 minuti dalla Val Lupara alla vetta del Sirente; arriviamo che è quasi deserta, solo un “collega” è in vetta: Nel giro di quindici minuti la vetta si popola però, si affolla, altri sono in salita all’interno del Majori, anzi su un canalino laterale, altri sono lungo la cresta e si stanno avvicinando; ma che tutti i montanari si sono dati appuntamento alla croce del Sirente? Ma la notizia delle notizie (ovvio che vale solo per me) è che il Sirente ha deciso di sotterrare l’ascia e di fare una personalissima pace col sottoscritto; tutte le volte che sono salito, prima o più tardi, aveva mostrato nei miei confronti i suoi denti; di tutto fino ad oggi ho subito su questa vetta, temporali, venti fortissimi, nebbia da perdersi, mentre oggi c’è una pace irreale ed una temperatura mite. Rimaniamo su una buona mezz’ora, la vetta del Sirente è altissima su tutto e centrale nei nostri Appennini, inutile è elencare quali e quanti monti si riuscivano a vedere, praticamente tutti o quasi. La vista più bella è però il vuoto a precipizio sul canale Majori; la croce, lineare, d’acciaio, pulita, che si trova in vetta è solamente ad un paio di metri dal precipizio. Una cornice nevosa incerta arriva fin in prossimità della croce, occorre guardarsi bene dall’avvicinarsi. Uno sperone roccioso scoperto si protende invece nel vuoto di quell’infinito scivolo ancora colmo di neve, sopra il canale, in cresta, cornicioni pendono minacciosi ma le loro dimensioni non creerebbero problemi in caso di crollo; si polverizzerebbero ancora prima di toccare il suolo. Scatto molte foto sperando che rendano bene l’idea dell’imbuto che ho ad un passo da me, so già che non riusciranno nell’intento ma lo scatto isterico è partito in sequenza irrefrenabile, a casa vedrò i risultati. Il Sirente forse si era solo distratto, ad un certo punto si è accorto che ero a cavalcioni della sua cima e prontamente il cielo si è ingrigito, coperto di nuvole; niente di trascendentale ma il sole che è sparito ha abbassato la temperatura e reso il vento, pure leggero, fastidioso. Si è fatta l’ora di tornare. Riprendiamo la discesa, decidendo di saltare la Neviera per il rischio di cornici e ripercorriamo il tracciato dell’andata; la discesa è veloce tranne i lunghi traversi della Val Lupara; in discesa sono ancora più insidiosi per cui è come dover rifare la traccia di nuovo. Poi il bosco, la luce è più bella di quella del mattino e intorno alle 16 siamo alla macchina.